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Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite  piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande  rassegnazione"
"Bisogna ignorare la storia del mondo per poter credere di aver fatto un buon affare col solo acquisto di un oggetto: è alla vendita che si giudica l'accortezza dell'acquisto"
 
 
 
            
        
          
        
          
        
 Il presidente della Repubblica nomina Mario Monti
Il presidente della Repubblica nomina Mario Monti
senatore a vita. 
 
 
 
            
        
          
        
          
        
          
        
 «MI SONO trovato finalmente a pensare, questa settimana,  che  il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio  Berlusconi».  Lo scrive James Stewart sul New York Times.  Così il nostro presidente  del Consiglio è arrivato  ad essere promosso dal ruolo di zimbello della  stampa  internazionale a quello di possibile innesco di una tragica  crisi  finanziaria mondiale. Il governo dell'attuale primo ministro,   nei quasi dieci anni nei quali è stato al potere, avrebbe  potuto  rendersi conto che il debito pubblico pregresso del nostro  Paese era un  autentico barile di polvere pronto a esplodere  quando le condizioni  finanziarie internazionali lo avessero  innescato. Avrebbe dunque dovuto  agire in maniera appropriata per  ridurlo e metterlo in sicurezza. Al  contrario, lo ha addirittura  fatto crescere, con le proprie improvvide  politiche, vanificando  la strategia di rientro che i ministri del  centrosinistra, in  particolare Visco, hanno tentato quando sono stati  al governo.  Altrettanto noto al nostro primo ministro e al suo governo  era,  come lo era ai mercati, che i due anni orribili, dal punto di   vista della concentrazione dei rimborsi e delle cedole del debito   pubblico italiano, sarebbero stati il 2011 e il 2012. Ma la  conoscenza  di tali scadenze non sembra aver agitato i sonni dei  nostri governanti,  inducendoli a una politica economica che non  spaventasse i nostri  partner europei e i mercati internazionali.  Essi hanno invece atteso  senza una cura al mondo che la tempesta  si addensasse sul loro capo,  mentre, al contrario, gli altri  Paesi deboli dell'Europa si  affannavano a mostrare, col  comportamento dei loro governanti e della  intera loro classe  politica, di voler affrontare le proprie difficoltà   finanziarie senza tergiversamenti e furbizie. Così la  Spagna, che ha  problemi più gravi dei nostri, è  riuscita a guadagnarsi uno spread e un  trattamento, da parte dei  mercati e dei governi partner, meno  sfavorevoli dei nostri. Il  nostro premier è stato per decenni un  maestro della  comunicazione, con la quale è divenuto straricco. Quel  che  il comportamento inane suo e del suo governo comunicava al mondo   lo sapeva benissimo. Eppure ha continuato a suonare la lira  mentre Roma  bruciava. Messo infine all'angolo dal duo  Merkel Sarkozy, che è  apparso esso stesso abbastanza  atterrito dagli avvenimenti, e spesso  brancolante nel buio, il  nostro premier ha stilato un elenco di  promesse di cose da fare e  lo ha mandato a Bruxelles. Glielo hanno  rispedito come  insufficiente e glielo ha rimandato con l' aggiunta di  un paio di  misure che evocano la "faccia feroce" dell' esercito di   Franceschiello. Quel che sarebbe accaduto alla riapertura dei  mercati,  dopo il week end, quando gli operatori finanziari di  tutto il mondo  avevano avuto il tempo per rendersi conto della  mancanza di sostanza  delle promesse italiane, non occorreva  grande fantasia per prevederlo.  Infatti, si è verificato.  Ora abbiamo percorso, sulla strada del rialzo  dei tassi, quasi  tutta la strada che porta al punto di non ritorno,  stimato al 7%.  Questi ultimi cento punti base che ci separano da esso  non sono  un percorso lineare. Ognuno di essi porta ad una accelerazione   della velocità con la quale ci avviciniamo al precipizio.  In altri  Paesi, i governi in carica hanno, assai prima di  raggiungere questi  livelli di allarme, rimesso il mandato. Ma,  come notano gli  esterrefatti osservatori stranieri, qui da noi si  afferma con la  massima tranquillità che bisognerà  aspettare gennaio, quando i membri  del nostro Parlamento saranno  certi di essersi assicurata la pensione,  per poter pensare a una  messa in minoranza del governo, non più  sanabile da un  voto di fiducia che ricompatti ancora una volta il  gregge. E nel  frattempo? L' Italia non è mai stata al centro di una   grande crisi finanziaria internazionale, in tutti i 150 della sua   storia unitaria. Questa volta rischiamo di trovarci nello scomodo  ruolo  di protagonisti. Né siamo mai stati messi sotto  controllo finanziario  internazionale. L' unica volta che ci fu  questo rischio fummo investiti  dal turbine finanziario  internazionale mentre ci dibattevamo nella  nerissima stagione  della Banca Romana e delle faide tra Crispi e  Giolitti, nei primi  anni novanta del secolo XIX. La Grecia dichiarò la   bancarotta e noi riuscimmo ad eludere questo affronto per un  sussulto  di orgoglio, che portò Sidney Sonnino e Luigi  Luzzatti a prendere il  timone, proprio per evitare, come disse  Sonnino, «che l' Italia faccia  la fine della Grecia».  Da quella sterzata verso la salvezza nacque la  Banca d' Italia,  ma anche una politica economica talmente dura da  provocare, nel  1898, una rivolta operaia sedata a cannonate da un  governo  capeggiato da un generale. Poi tornò il sole, in tutto il   mondo, e andammo a dieci anni di sviluppo economico accelerato e  di  risanamento finanziario, il celebre decennio giolittiano. Se  ci basta,  possiamo consolarci con questa speranza nata dal  ricordo di tempi  altrettanto grami. Ma dove sono oggi i Sonnino e  i Luzzatti?
«MI SONO trovato finalmente a pensare, questa settimana,  che  il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio  Berlusconi».  Lo scrive James Stewart sul New York Times.  Così il nostro presidente  del Consiglio è arrivato  ad essere promosso dal ruolo di zimbello della  stampa  internazionale a quello di possibile innesco di una tragica  crisi  finanziaria mondiale. Il governo dell'attuale primo ministro,   nei quasi dieci anni nei quali è stato al potere, avrebbe  potuto  rendersi conto che il debito pubblico pregresso del nostro  Paese era un  autentico barile di polvere pronto a esplodere  quando le condizioni  finanziarie internazionali lo avessero  innescato. Avrebbe dunque dovuto  agire in maniera appropriata per  ridurlo e metterlo in sicurezza. Al  contrario, lo ha addirittura  fatto crescere, con le proprie improvvide  politiche, vanificando  la strategia di rientro che i ministri del  centrosinistra, in  particolare Visco, hanno tentato quando sono stati  al governo.  Altrettanto noto al nostro primo ministro e al suo governo  era,  come lo era ai mercati, che i due anni orribili, dal punto di   vista della concentrazione dei rimborsi e delle cedole del debito   pubblico italiano, sarebbero stati il 2011 e il 2012. Ma la  conoscenza  di tali scadenze non sembra aver agitato i sonni dei  nostri governanti,  inducendoli a una politica economica che non  spaventasse i nostri  partner europei e i mercati internazionali.  Essi hanno invece atteso  senza una cura al mondo che la tempesta  si addensasse sul loro capo,  mentre, al contrario, gli altri  Paesi deboli dell'Europa si  affannavano a mostrare, col  comportamento dei loro governanti e della  intera loro classe  politica, di voler affrontare le proprie difficoltà   finanziarie senza tergiversamenti e furbizie. Così la  Spagna, che ha  problemi più gravi dei nostri, è  riuscita a guadagnarsi uno spread e un  trattamento, da parte dei  mercati e dei governi partner, meno  sfavorevoli dei nostri. Il  nostro premier è stato per decenni un  maestro della  comunicazione, con la quale è divenuto straricco. Quel  che  il comportamento inane suo e del suo governo comunicava al mondo   lo sapeva benissimo. Eppure ha continuato a suonare la lira  mentre Roma  bruciava. Messo infine all'angolo dal duo  Merkel Sarkozy, che è  apparso esso stesso abbastanza  atterrito dagli avvenimenti, e spesso  brancolante nel buio, il  nostro premier ha stilato un elenco di  promesse di cose da fare e  lo ha mandato a Bruxelles. Glielo hanno  rispedito come  insufficiente e glielo ha rimandato con l' aggiunta di  un paio di  misure che evocano la "faccia feroce" dell' esercito di   Franceschiello. Quel che sarebbe accaduto alla riapertura dei  mercati,  dopo il week end, quando gli operatori finanziari di  tutto il mondo  avevano avuto il tempo per rendersi conto della  mancanza di sostanza  delle promesse italiane, non occorreva  grande fantasia per prevederlo.  Infatti, si è verificato.  Ora abbiamo percorso, sulla strada del rialzo  dei tassi, quasi  tutta la strada che porta al punto di non ritorno,  stimato al 7%.  Questi ultimi cento punti base che ci separano da esso  non sono  un percorso lineare. Ognuno di essi porta ad una accelerazione   della velocità con la quale ci avviciniamo al precipizio.  In altri  Paesi, i governi in carica hanno, assai prima di  raggiungere questi  livelli di allarme, rimesso il mandato. Ma,  come notano gli  esterrefatti osservatori stranieri, qui da noi si  afferma con la  massima tranquillità che bisognerà  aspettare gennaio, quando i membri  del nostro Parlamento saranno  certi di essersi assicurata la pensione,  per poter pensare a una  messa in minoranza del governo, non più  sanabile da un  voto di fiducia che ricompatti ancora una volta il  gregge. E nel  frattempo? L' Italia non è mai stata al centro di una   grande crisi finanziaria internazionale, in tutti i 150 della sua   storia unitaria. Questa volta rischiamo di trovarci nello scomodo  ruolo  di protagonisti. Né siamo mai stati messi sotto  controllo finanziario  internazionale. L' unica volta che ci fu  questo rischio fummo investiti  dal turbine finanziario  internazionale mentre ci dibattevamo nella  nerissima stagione  della Banca Romana e delle faide tra Crispi e  Giolitti, nei primi  anni novanta del secolo XIX. La Grecia dichiarò la   bancarotta e noi riuscimmo ad eludere questo affronto per un  sussulto  di orgoglio, che portò Sidney Sonnino e Luigi  Luzzatti a prendere il  timone, proprio per evitare, come disse  Sonnino, «che l' Italia faccia  la fine della Grecia».  Da quella sterzata verso la salvezza nacque la  Banca d' Italia,  ma anche una politica economica talmente dura da  provocare, nel  1898, una rivolta operaia sedata a cannonate da un  governo  capeggiato da un generale. Poi tornò il sole, in tutto il   mondo, e andammo a dieci anni di sviluppo economico accelerato e  di  risanamento finanziario, il celebre decennio giolittiano. Se  ci basta,  possiamo consolarci con questa speranza nata dal  ricordo di tempi  altrettanto grami. Ma dove sono oggi i Sonnino e  i Luzzatti?
        MARCELLO DE CECCO - la repubblica 1 novembre 2011