Gino Strada arriva quando tutti scappano, quando la guerra esplode nella sua lucida follia. Guerre che per lo più hanno un lungo strascico di sangue dopo la fine ufficiale dei conflitti: quando pastori e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando i bambini raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi: pappagalli verdi, li chiamano i vecchi afgani… In questo libro, che porta come sottotitolo Cronache di un chirurgo di guerra, Gino Strada mette a nudo le immagini più vivide, talvolta i ricordi più strazianti, le amarezze continue della sua esperienza... [dalla Prefazione di Moni Ovadia a "Pappagalli verdi"]
La "quotidianità della tragedia" é questa: ogni venti minuti nel mondo una mina esplode e i 50 o 100 grammi di tritolo che contiene vengono sparati a incredibile velocità, ferendo, mutilando, uccidendo esseri inermi che stanno camminando in un prato, portando il gregge al pascolo, giocando nel cortile di casa, zappando la terra. Due bambini raccolgono un pezzo di ferro e, contenti, vanno al mercato dove forse potranno barattarlo con un tozzo di pane: passando da una mano all’altro, quel pezzo di ferro esplode.
Diceva Saddam Hussein nell’ottobre 1991, all’indomani del ritiro dalla regione kurda dell’Iraq: "Noi ce ne siamo andati, ma il nostro esercito è rimasto lì." E alludeva alle mine antipersona (dieci milioni, tre per ogni abitante nel Kurdistan iracheno), alla sua armata invisibile fatta di italianissime Valmara 69 e VS-50. Mine la cui produzione e il cui commercio sono stati finalmente proibiti dalla legge 374 del 22 ottobre 1997, approvata anche grazie a una campagna di pressione di Emergency, l’organizzazione umanitaria fondata da Strada a Milano nel 1994 e alla quale sono devoluti i diritti d’autore di questo libro.
Accanto alle mine italiane, ecco il modello PFM-1 di fabbricazione russa, i "pappagalli verdi". In Afghanistan i sovietici ne lanciavano a migliaia dagli elicotteri; grazie alle "ali" di cui erano dotate, queste mine anziché cadere a grappolo in un unico punto si disperdevano come volantini su un’ampia superficie. I militari sovietici affermavano che quelle mine erano fatte in quel modo per sole ragioni tecniche e non perché dovessero assomigliare a un giocattolo. Cioè, precisavano indignati i progettisti, non erano fatte apposta per attirare i bambini. Però li attiravano. E i bambini se le portavano a casa, se le scambiano come fossero figurine, finché sulle "ali" veniva esercitata un po’ di pressione e si verificava l’esplosione. Strategia di guerra: più bambini muoiono o rimangono ciechi o monchi o sfigurati, più la popolazione civile terrorizzata cesserà ogni resistenza. A partire dalla metà del secolo, il 90% delle vittime dei conflitti erano civili estranei ai combattimenti; in Afghanistan il 34% di queste erano bambini.
Cosa è che ha portato Strada a essere l’opposto di un barone universitario o di un chirurgo dai guadagni miliardari? Certo, la passione per il lavoro e la fortuna di essere pagato per fare ciò che piace (in contesti, peraltro, allucinanti). Ma anche e soprattutto quelle "idee di solidarietà, di consapevolezza di essere in qualche modo in debito verso i più sventurati della terra". Scrive Strada: "Molti di loro non sopravvivono. Non riescono a sopportare il lungo viaggio sulle montagne, a dorso di mulo, qualche volta stesi su un carretto. Arrivano sporchi e sfiniti al nostro ospedale, con il turbante e la barba pieni di terra, i vestiti stracciati e incrostati di sangue. E’ giusto che ci sia qualcuno ad aspettarli, è umano".
Se dovessimo scegliere alcuni dei momenti essenziali di questo diario, prenderemmo quelli in cui Gino Strada sfoga la sua indignazione e il suo disprezzo nei confronti di coloro che dopo aver subito lutti e tormenti senza fine ad opera del potere centrale o di una potenza occupante, non appena "liberi" hanno iniziato a combattere tra di loro. Strada si è trovato nel Kurdistan iracheno e nella capitale afghana, Kabul, in momenti del genere. E, resistendo alla tentazione di maledire tutti quanti e tornarsene a Milano, ha cercato di ritagliare almeno per il proprio ospedale una zona neutrale, in cui poter soccorrere i feriti di una parte e dell’altra.
E a proposito di ospedali, concludiamo ricordando che Strada ha lavorato anche al Koshevo di Sarajevo, dove il dottor Karadzic era un l’insigne psichiatra. Un giorno l’insigne psichiatra, i tecnici, gli infermieri e i portantini della sua etnia non si presentano più in ospedale. Una settimana dopo saranno tutti sulle colline intorno a Sarajevo, a bombardare il loro reparto e i loro stessi colleghi...
Nessun commento:
Posta un commento