En Clarín (Argentina)
Berlusconi llama "gilipollas" a quienes no le voten. El Mundo, EL PAIS (España)
Imbarazzo tra i cronisti della stampa straniera per la traduzionedell'epiteto usato dal premier. Molti utilizzano delle acrobazie lessicali per spiegare la parolaccia.
FINANCIAL TIMES ottimista: Italy follows Argentina down road to ruin...
Manifestazione organizzata dal blog www.sonouncoglione.splinder.com
5 commenti:
Si lo seràn, aun no se sabe... que lo fueron... esta comprobado cientificamente!
Una parolaccia come bandiera
di MICHELE SERRA
SONO uno dei coglioni (speriamo una valanga) che andrà a votare per l'Unione, nella speranza di chiudere i conti con gli anni più umilianti, e meno spiritosi, della storia repubblicana. La qualifica di coglione, che ho l'onore di condividere con una buona metà degli italiani, mi è stata data ieri, molto autorevolmente, dal presidente del Consiglio, in uno di quegli sbocchi di tracotanza che, pochi minuti dopo, il premier è solito definire "ironici", con una battuta involontaria su se stesso.
Come chi travolga un pedone sulle strisce e poi gli dica: guardi che era solo una metafora. Non mi sono offeso. Se c'è una cosa che abbiamo imparato, pur nello sbigottimento ininterrotto, da quando Berlusconi è sulla scena, è a valutare il piccolo calibro dei suoi giudizi e delle sue sortite. È un piccolo calibro che, in politica, ha prodotto danni paurosi. Ma nella psicologia collettiva dell'Italia che a Berlusconi si oppone, produce soprattutto un inevitabile sentimento di alterità e, ahimé, di disprezzo.
Dico ahimé perché sentirsi superiori non aiuta mai a ragionare bene, men che meno su se stessi, e anzi può accecare. D'altra parte, come tenere a bada l'istinto di preferirsi, quando l'antagonista riesce ad abbassare tutti i parametri, dico tutti, del conflitto politico e della vita civile di un Paese?
In questi anni Berlusconi, con una grossolanità di modi e di spirito che non eravamo certo abituati a considerare "di governo", perfino negli anni dei peggiori governi, ha sistematicamente sostituito al dibattito la propaganda, al cittadino il cliente, al giornalista il servo, alla polemica la smargiassata, alla cultura la barzelletta. Non gli intellettuali con la puzza sotto il naso, ma molti milioni di normalissimi cittadini (di sinistra, ma non solo), nell'opporsi a un siffatto leader, si sono sentiti continuamente spiazzati dal progressivo incarognirsi del clima, dalla bassezza della polemica, dalla violenza puerile delle reazioni. E poiché è perfettamente vero che uno dei vizi storici della sinistra è una certa alterigia, era materialmente impossibile che Berlusconi non lo aggravasse, quel vizio.
Ora, pensandoci bene, gli elettori di centrosinistra hanno almeno due buoni motivi per digerire con una certa leggerezza l'insulto di Berlusconi. La prima, evidente a chiunque, è che in un solo minuto di catastrofe retorica il premier ha distrutto l'effetto-Ici (pompatissimo dai suoi giornali e telegiornali), regalando al centrosinistra un ottimo argomento in più (hai visto chi è il vero fanatico? chi il vero illiberale?) e ai giornali, per due o tre giorni, titoli di testa che offuscano la campagna berlusconiana sul fisco allegro. L'esultanza degli stati maggiori dell'opposizione, già pochi minuti dopo i primi lanci di agenzia, era alle stelle.
Il secondo motivo, già ben percepibile ieri su Internet, è che l'epiteto di coglione è stato immediatamente fatto proprio, con orgogliosa ilarità, da moltissimi elettori dell'Unione, con le prime manifestazioni, in diverse città italiane, di "coglioni autoconvocati". Si sa che esiste una lunga tradizione di parole denigratorie, o di scherno, che vengono beffardamente ribaltate da chi ne è fatto oggetto. Ora, rivendicare la qualifica di coglione può aiutare l'Italia che non sopporta più Berlusconi, e lo vive come un attentato alla dignità del Paese, a stemperare sia la gravità del momento sia quella del proprio ruolo.
Sentirsi molto migliori di Berlusconi in quanto cittadini, o in quanto italiani, o in quanto rispettosi delle leggi, effettivamente è molto più sentenzioso, e faticoso, e perfino antipatico, che sentirsi migliori di Berlusconi in quanto "elettori coglioni". L'idea, poi, che sia un esercito di coglioni a poter sgominare l'Unto dal Signore, è massimamente esaltante.
Quanto a lui, pover'uomo, le sue spiegazioni, a frittata fatta, come spesso accade aggravano la situazione. Non si scusa per avere insultato metà degli elettori, si scusa per il termine usato. Come se dire "chi vota a sinistra è scemo" fosse più o meno grave, per un capo di governo, che dire "chi vota a sinistra è coglione". Come se fosse l'ineleganza formale, a fare scandalo, e non la sostanza della frase, che rivela una cultura democratica, e un rispetto civile, da bassifondi. Il suo problema è che raramente sa di che cosa si sta parlando. Però ne parla lo stesso, e questo, da sempre, è la freccia più acuminata nell'arco dei suoi avversari.
(5 aprile 2006)
L'invettiva di Vicenza e l'insulto al ragazzo di Genova
Prologo dell'escalation contro Prodi e la sinistra
Dal galateo alla parolaccia
la deriva del Cavalier mi consenta
di FILIPPO CECCARELLI
MI CONSENTA diceva un tempo il presidente Berlusconi: e si poteva cogliere un che di lezioso, in quella poi celebre formula, ma anche il principio della buona educazione. Ecco: dal "mi consenta" del 1994 ai "coglioni" di ieri si consuma l'avventura, pure lessicale, del berlusconismo. Il Cavaliere, semplicemente, non poteva trattenersi dal dirlo. Gli succede sempre più spesso. Sui bambini bolliti dai cinesi, ha poi ammesso: "Non potevo fermarmi".
A Vicenza, dopo lo sfogo contro gli industriali e Della Valle, si è indicato il gozzo e ha detto: "Ce l'avevo qui". Nel secondo duello, toccato da una battuta di Prodi, se n'è uscito: "Faccio fatica a trattenermi". Due settimane fa, a Genova, un ragazzo l'ha contestato per strada, urlandogli contro qualcosa su Mangano, lo stalliere. A quel punto il presidente del Consiglio s'è fermato: "Tu non ti puoi permettere". E guardandolo negli occhi, a muso duro: "Tu sei un coglione!".
Ora, ai politici - a tutti i politici - dà sempre un grande sollievo poter dire, dopo qualche insulto: "Quando ci vuole, ci vuole", con le dovute varianti dialettali. È comunque un'espressione, questa, che li fa sentire caldi, spontanei e perfino umani, perché a tutti in fondo scappa la parolaccia, e loro sono "come tutti".
Ma in Berlusconi il passaggio dall'affettazione alla volgarità, da un linguaggio sostanzialmente perbenista e mirato a conquistare la simpatia e l'affetto del pubblico, ecco, questo cambiamento non solo è evidente, ma indica qualcosa di indicibile, l'indizio, il segno o la rivelazione che il Cavaliere sta perdendo ciò che è più importante in politica: la grammatica del rispetto.
Poi, come spesso accade - e a lui sempre più spesso - il tentativo di aggiustamento della gaffe l'ha in verità aggravata e rivendicata. Prima quando ha detto sul palco: "Scusate il linguaggio rozzo, ma efficace". Quindi all'uscita: "Era un'ironia" - povero Socrate. O addirittura: "Era un modo affettuoso". E infatti: "L'ho detto con il sorriso sulle labbra". Magari per smentire l'ultima copertina di Newsweek dove campeggia un Berlusconi immusonito, molto Caimano, e la scritta, appunto, che pone l'interrogativo: "Why Silvio isn't smiling".
Ecco. A pensarci bene, a rivedere alla moviola "la scena dei coglioni", è proprio il modo inconsapevolmente livido con cui il premier ha pronunciato quel termine che mette a nudo la rottura dei suoi stessi codici linguistici. È la mancanza di sorriso che chiama l'insulto basso e villano, il disprezzo triviale che Berlusconi sembra aver mutuato dai suoi peggiori nemici, quegli stessi di cui si dichiara vittima da oltre dieci anni.
Non è più il linguaggio potenzialmente eversivo, ma accattivante che hanno studiato fior di studiosi e glottologi di varie scuole in tanti articoli e libri: Augusta Forconi, Parola di Cavaliere (Editori riuniti, 1997); Giorgio Fedel, Parola mia. Sulla retorica di Berlusconi, rivista Il Mulino, 2003; Sergio Bolasco, Luca Giuliano, Nora Galli dè Paratesi, Parole in libertà, Manifestolibri, 2006.
Non è più la barzelletta pesante, o il complimento grossolano su gambe di congressiste, tette e ombelichi di croniste. È una metamorfosi al tempo stesso evoluta e regressiva che spinge questo ricco e potente uomo di governo a dire, ma anche a fare cose sempre più strane. Piccoli grandi incendi personali appiccati nel pagliaio dell'immaginazione collettiva.
Spostamenti mentali, paesaggi onirici. Il voto di castità elettorale offerto a un sacerdote sardo, e poi sconfessato. La telefonata propagandistica notturna alle operatrici delle hot-line (sei su otto si sono dichiarate ammiratrici di Berlusconi, le altre due non interessate alla politica). L'agghiacciante scenetta improvvisata durante la visita di una scolaresca a Palazzo Chigi, così descritta l'altro giorno da un piccolo testimone: "Secondo lui tutte le ragazze sopra i 23 anni nel mondo dello spettacolo si rifanno, e mentre lo diceva ha messo le mani sul petto facendo finta di sollevarsi i seni". Un presidente del Consiglio. Un uomo di quasi settant'anni.
Così ieri sera l'agenzia Ansa metteva in rete un ameno e dotto dispaccio dal titolo: "Gli "attributi" della politica, da Cicerone a Berlusconi". Sottotitolo: "Un filo rosso tra l'antico "coleus" e il "coglione" di oggi". E allora nelle redazioni politiche si rideva, si scherzava, si ricostruiva il passato compulsando archivi e banche dati, certo con scrupolo degno di miglior causa.
Per cui sì, certo, ci mancherebbe: non è la prima volta che il Cavaliere pronuncia quella parola lì. Già nel 1994 telefonò a Maroni per dirgli: "Allora, è ufficiale: quello lì - e qua c'era il nome di un esponente referendario allora assai in voga - è un coglione". Così come l'anno seguente, intercettato una notte in un piano bar di Cernobbio, sempre il Cavaliere qualificò di coglione un futuro vicepresidente del Consiglio del Pds, o Ds, o come si chiamava allora quel partito.
Poi fece marcia indietro: "Si dice per dire. Se quello fosse davvero un coglione non sarebbe dov'è". E così via, secondo la più celebrata competenza comunicativa.
Ma allora Berlusconi era un uomo e un politico molto, ma molto più spensierato di oggi. Non era Sgarbi, né Borghezio. E se proprio doveva dare del coglione a qualcuno, e non a decine di milioni di italiani, lasciava germogliare l'offesa in campo per così dire informale, o privato. Oggi invece quella parola, "coglioni", quella squisitezza di massa, fermenta nel mezzo del discorso pubblico, segno di cruda vitalità e disperata degradazione.
(5 aprile 2006)
Berlusconi recurre al insulto para ganar terreno en el tramo final de la campaña Añadir a Mi carpeta
El primer ministro italiano llama "gilipollas" a los votantes del centro-izquierda
ENRIC GONZÁLEZ - Roma
EL PAÍS - Internacional - 05-04-2006
Imprimir Enviar Recomendar Corregir Estadísticas Versión en PDF Versión sólo texto Aumentar, reducir tamaño del texto
Silvio Berlusconi, ayer, durante un acto de su campaña electoral en Roma.
Silvio Berlusconi, ayer, durante un acto de su campaña electoral en Roma. (REUTERS)
ampliarampliar
Silvio Berlusconi esperó hasta el último minuto del debate televisivo del lunes para sacar de la chistera un conejo gigantesco, del que no había ni rastro en su programa electoral: la abolición del impuesto sobre la vivienda. Ayer hizo que la campaña enloqueciera un poco más al calificar de "coglioni", término traducible como "gilipollas", a los votantes del centro-izquierda. Il Cavaliere parecía estar contra las cuerdas, luchando de forma casi desesperada y abriéndose paso a golpes de populismo y demagogia hacia una victoria cada vez más difícil. El insulto suscitó la indignación del centro-izquierda.
Il Cavaliere, ante un auditorio de comerciantes berlusconianos, pronunció la frase del día: "Tengo demasiada estima por la inteligencia de los italianos como para pensar que haya por ahí tantos gilipollas que puedan votar contra sus propios intereses", dijo, en referencia a los votantes del centro-izquierda. Y agregó: "Perdonen mi lenguaje, tosco pero eficaz". ¿Cuál era el objetivo de ese exabrupto? A estas alturas, nada de lo que dice Berlusconi es espontáneo. Posiblemente aspiraba a monopolizar de nuevo todos los titulares, relegando al "cura de pueblo", como llama a Prodi cuando no le llama "tonto útil", a las páginas interiores.
Los mensajes de Berlusconi se dirigen, a pocos días de las elecciones, hacia quienes son o fueron simpatizantes de Forza Italia. Aspira a movilizar a los suyos (afligidos por la tentación abstencionista) y a que su partido obtenga un buen resultado, lo cual podría servirle para obtener una victoria contra pronóstico o, cosa más probable, para mantenerse en caso de derrota como indiscutible jefe de la oposición. Alterna la zanahoria para su electorado (la abolición del impuesto sobre el inmueble de residencia), el palo a la oposición ("esa gente da miedo", "quien vota a la izquierda elige ser pobre") y el grito extemporáneo para que nadie olvide que sigue ahí.
Lo de coglioni indignó al centro-izquierda. "Esta palabra demuestra hasta qué punto de vulgaridad, agresividad y sordidez ha llegado el comportamiento del presidente del Gobierno", dijo Piero Fassino, secretario general de los Demócratas de Izquierda.
El eje del debate, insultos al margen, siguió siendo la promesa de suprimir el ICI, el impuesto sobre la vivienda en la que se reside. Cuando Berlusconi hizo el anuncio, con una sonrisa como un teclado y con la técnica verbal de un consumado vendedor a domicilio ("sí, han oído ustedes bien"), millones de italianos quedaron entre pasmados e incrédulos. Frente a la demagogia de Berlusconi, la coalición prodiana se encargó de subrayar su propia seriedad con una frase que explica el escaso entusiasmo de los electores de izquierda: "La propuesta de abolir el ICI sobre la primera casa", proclamó Fassino, "ha sido efectuada sin una discusión previa con los sujetos titulares y sin abrir un debate sobre los objetivos en contratendencia respecto al reforzamiento de la capacidad de autogobierno de las comunidades locales".
El coste de suprimir el ICI, esencial para financiar los ayuntamientos, es de unos 2.300 millones de euros anuales. "Una tontería, una suma fácilmente compensable por otras vías, como la venta de inmuebles del Estado", comentó Il Cavaliere. Hasta cierto punto, tenía razón. La promesa de Prodi de reducir en cinco puntos los impuestos sobre el trabajo costaría mucho más. Il Professore aseguró en el debate que bastaría recuperar una parte de la elefantiásica evasión fiscal, estimada en 200.000 millones al año, para cuadrar las cuentas.
Silvio, l'«adorabile gaffeur»
Tutti i cattivi esempi del Cavaliere
Maledette telecamere. È dura stavolta, per il Cavaliere che sulle telecamere ha costruito una fortuna, smentire d'aver chiamato «coglioni» quelli di sinistra. Ed è dura raccontare di aver parlato «con il sorriso sulle labbra», di averci «scherzato sopra», di aver fatto solo dell’«ironia». Il filmato che lo mostra serio e teso è lì, online, alla portata di tutti gli internauti, al punto da aver costretto anche i tigì più ossequiosi a lasciar perdere l'oscuramento. Ahi ahi, sul più bello che era riuscito a piazzare con l'abolizione dell'Ici un nuovo sogno azzurro...
È la terza volta in pochi mesi, che viene chiamato a spiegare una sortita sbagliata da chi lo accusa di non avere capito la lezione di Strasburgo, quando gli scappò quella sventurata sciocchezza del «kapò» al tedesco Martin Schulz, aggravata dalla spiegazione che «era solo una battuta ironica» dovuta al fatto che «in Italia girano da anni storielle sull’Olocausto perché gli italiani sanno ridere anche di una tragedia». La prima volta spinse 170 mila produttori finlandesi riuniti nell'Mtk a dire che non avrebbero «più comprato vini e olii italiani» perché aveva fatto lo spiritoso dicendo: «Per portare l'authority alimentare a Parma ho rispolverato le mie doti di playboy col presidente finlandese Tarja Halonen». La seconda irritò Pechino dicendo che «nella Cina di Mao i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi». «Purtroppo c’è una generale mancanza di umorismo», sospirò dopo le prime proteste. «Ho fatto una battuta, una ironia discutibile, non ho saputo trattenermi, ma su fatti veri», disse dopo le seconde.
Giuliano Ferrara, che lo vezzeggia come «un adorabile gaffeur », un giorno glielo ha spiegato: «Il fatto è che non vuole proprio imparare il " wording ", l’arte di scegliere le parole giuste, quella parola e nessun’altra, per esprimere nel modo dovuto alla comunità politica le sue intenzioni, le sue idee, le sue decisioni. Per un certo periodo questa è stata anche una sua forza, il crisma dell’antipolitica e della spontaneità contro il gergo professionale della classe dirigente più tradizionale, ma alla lunga, come abbiamo cercato di spiegargli con franchezza ormai fino alla noia, il gioco si fa perverso». Bacchettata finale: «Leggere un testo è meglio che straparlare». Ed è lì che anche gli amici più indulgenti sono perplessi: sarà anche vero, come dice Bonaiuti, che la stessa invettiva incriminata ieri viene quotidianamente scagliata contro il Cavaliere mille volte, su Internet e nelle piazze. Ma lui, come ha ricordato personalmente invitando Diego Della Valle a dargli del «lei» e non del «tu», è il capo del governo. E come ha scritto Ferrara, «più si è importanti, più le parole hanno un peso».
Questo è il punto. Le intercettazioni compiute per i motivi più diversi prima che Berlusconi entrasse in politica sono affari suoi. E la confidenza a Dell’Utri del capodanno 1986 sul bidone tirato a lui e a Craxi da due ragazze del «Drive In» («Poi finisce che non scopiamo più!»), lo sfogo contro i giornalisti del Giornale rei di aver attaccato Nicolazzi («son proprio dei figli di troia») o la promessa all’amico Bettino di mettere in riga Montanelli («se fa le bizze lo prendo a calci in culo») possono al massimo aiutare a capire che privatamente il Cavaliere è meno compunto di come voglia apparire. Niente scandali, per favore: alzi la mano chi con amici al telefono non si è mai fatto scappare una parolaccia o una barzelletta un po’ spinta.
Ma è nella veste di leader della destra italiana che il Cavaliere ha già dato più volte, ahinoi, il cattivo esempio. Come quando alla Camera, negli anni di veleni con la Lega, dopo un voto del Carroccio contro la missione in Albania, sibilò a Luigi Roscia che l’accusava di essere un «inciucione»: «Bravo tu, furbacchione. Bravi tutti. Votare con Rifondazione. Avete proprio delle facce di cazzo!». Per non dire di quando liquidò un giudizio su di lui («dà il meglio solo quando ha un avversario») di Veltroni come «una coglionata». O quando, a Prodi che accusava le sue tivù di proporre modelli di comportamento «agli antipodi dei principi cristiani», rispose: «Mi sono stancato di rispondere alle stronzate».
Su tutto però, nelle cronache birichine di questi anni, resteranno tre momenti. Il primo fu raccontato da un giornalista certo non ostile al Cavaliere, Vittorio Feltri, e confermato parola per parola («Mi risulta sia andata esattamente così») da Cossiga.
Eravamo nel febbraio del 2004, quelli dell’Udc erano incontentabili e lui sbottò con Luca Volonté: «Voi ex democristiani mi avete rotto il cazzo, me lo hai rotto tu e il tuo segretario Follini. Basta con la vecchia politica. Conosco i vostri metodi da irresponsabili. Fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti, ma io vi denuncio, non ve la caverete a buon mercato, vi faccio a pezzi. Io le televisioni le so usare e le userò. Chiaro? Mi avete rotto i coglioni».
Altrettanto elegante fu il modo in cui rispose, in una giornata di luglio, alla signora Anna Galli a Rimini. Lei, in mezzo a una piccola folla osannante, lo aveva invitato a «tornarsene a casa», lui ricambiò così: «Lei ha una bella faccia da stronza».
Parole non proprio ortodosse, in bocca a un premier. Come quelle sibilate, pochi giorni fa, a Genova, in risposta a un giovane che urlava «viva Mangano!» con riferimento allo stalliere mafioso di Arcore. Una provocazione che aveva spinto il Cavaliere a tornare sui suoi passi e affrontare il giovanotto così: «Non ti permettere. Io sono una persona perbene. E tu sei solo un coglione». Una volta, a chi gli tirava le orecchie, rispose allargando le braccia: «Lo dico alla romana: quanno ce vo’ ce vo’».
Gian Antonio Stella
Posta un commento